Ovvero: saresti capace di riconoscere e perdonarti il tuo peccato capitale?
Se l’uomo sapesse davvero qual è il suo peccato mortale che cosa farebbe?
Lo eviterebbe? Lo saprebbe riconoscere e confessare? Lo saprebbe perdonare?
I cattolici son convinti che per giustificare un’inginocchiata davanti ad un parroco (e non siamo in tema di scandali sessuali), due padrenostro e tre avemaria, il motivo sia una bugia, due porco cazzo, un’autoscopata alle spalle della moglie/marito, il sogno di una sana scopata alle spalle della moglie/marito, la materializzazione del sogno di una sana scopata alle spalle della moglie/marito; il desiderio di evirare il proprio capufficio, e di spaccare il cranio a quel collega che sta tanto sulle palle (il fatto che il collega stia sulle palle non ci sembra poi così grave; e che cazz’, c’abbiamo tutti qualcuno sulle palle: bisognerebbe confessarsi ogni giorno, e se la Chiesa adocchia l’affare ci si farebbe i soldi come le macchinette dei videopoker nel bar). La versione ufficiale è comunque che il peccato sarebbe la separazione da Dio e dal suo amore che ci genera l’infelicità.
Gli atei con convinti che la giustificazione non esista. Però mentono, bestemmiano, auto scopano infelicemente, e desiderano effettuare evirazioni e tranciare crani a domicilio anche loro. Non commettono peccato, perché né il peccato né Dio esiste, ma quando fanno qualcosa che ritengono sbagliato provano questa strana sensazione sgradevole: il senso di colpa. E sono infelici lo stesso.
Lo dicono chiaro e tondo i risultati statistici sul consumo medio nazionale di farmaci procapite. Quelli che il telegiornale, quando non si parla del caldo afoso estivo e chiudeteviincasaeattaccatevialtubodellacqua, o delle spese pazze natalizie in tempo di crisi, o dell’ultimo cerbiatto vergine avvistato dalla guardia forestale abruzzese, strombazza ai quattro venti ma non troppo, creando un qual certo allarmismo, ma non troppo, quanto basta a ricorrere alla sertralina per mettere a nanna i pensieri.
So cosa stai pensando adesso.
Cosa diavolo è la sertralina. “E’ una cosa che non so. Devo saperla. Che cappero di figura ci faccio se qualcuno ne parla e non so cosa diavolo sia? E se nessuno lo sa, meglio: faccio la figura del figo, che sta cosa la so solo io”. Forza, non farti pregare: stai morendo dalla voglia di aprire wikipedia sull’altra pagina e andare a vedere. Vai, fai pure. Io ti aspetto qui.
Hai appagato il tarlo intellettuale?
Di che cosa parlavamo?
Ah, sì. Di peccati capitali.
Di quelli che ritengono di sapere cosa siano, di infrangerli e sapervisi redimere, e di quelli che ne rinnegano l’esistenza, pur conducendo una vita grama. Di quelli straordinariamente e completamente e perpetuamente felici non parliamo: quando ne incontrate e conoscete qualcuno fate un fischio. Monaci zen esclusi.
Il punto è: cos’è il peccato.
Il peccato è qualcosa che Joyce una volta ha scritto bene, parlando di Wilde: la separazione.
Io di qua, il resto del mondo di là.
Se fosse così banalmente semplice riuniremmo le due parti in quattro e quattr’otto e saremmo degli dei. E guarda caso il dio dei cattolici, proprio perché gli stava tanto sul cazzo questa o-dio-sa somiglianza, ha inventato la separazione/ peccato (quei due che fecero fagotto dal paradiso sarebbero l’esempio – i primi emigranti della storia).
La difficoltà sta nel difetto di percezione: io non ho affatto l’impressione di essere non integro, e credo semplicemente che il mondo là fuori è il mondo là fuori. Una cosa fuori da me, fuori dal mio controllo, che c’entra con me nei limiti della mia possibile interazione con lui. E nel mondo ci sono gli altri, le cose, i fatti, i poteri forti, i posti… tutto ciò che convive vicino a me, e talvolta mi soverchia. Qualche volta (ma molto di rado) sono io a sentirmi potente su di lui.
Questo significa che ogni giorno è una sfida; ogni giorno devo lottare contro quello lì: il mondo là fuori. Contro quegli idioti che non la pensano come me, che non tifano la mia squadra, che non votano il mio partito, che non sono nati nella mia nazione, che non hanno il colore della mia pelle, che non sono del mio sesso, che non sono nati nella mia città, nella mia regione, nella mia macroregione, nel mio quartiere; contro quelli che si vestono sciatti, che si vestono da snob; contro quelli obesi, quelli eccessivamente magri, contro quelli che guadagnano miliardi e secondo me non se lo meritano, contro quelli che non fanno il loro dovere, contro quelli che fanno le ore piccole al lavoro (vogliono impressionare il capo questi lecchini di merda), contro il vicino del piano di sopra e quello del piano di sotto; contro il cattolico, e contro l’ateo.
E la lotta cos’è se non separazione? Io di qua, tu di là. Noi due non c’entriamo nulla l’uno con l’altro.
Che sgomento, che imbarazzo, che repulsione nello scoprire… che quello là sono io separato da me, sono tutto ciò che rifiuto in me e vedo riflesso, come in uno specchio deformante là fuori. Sono un’alternativa di me sconosciuta a me stesso, al me stesso vigile… vigile per ingannarmi, per non farmene accorgere.
Oltre alla separazione e all’illusione ottica che essa non ci sia, è di rilievo un altro dettaglio: le resistenze. Le terribili, antiche, profonde, irremovibili resistenze: le resistenze ad ammettere che è così. Che tutto ciò che odi, contro cui lotti e ti fai sanguinare le dita, contro cui urli, fischi, ti agiti e ti scateni sei tu. Sei il tu ripudiato: una specie di clone ripudiato a tua insaputa. Sei incapace di vedere le cose come stanno, perché le tue resistenze sono modellate su di te, sono “perfette” ed inattaccabili. Loro. Perché tu no, tu non lo sei, non ti ci sei mai sentito perfetto e inattaccabile (se non occasionalmente), non ti ci senti mai, altrimenti… non saresti sempre alla disperata e ossessiva ricerca dell’obiettivo: sentirti bene. Se a questo servano i soldi, il sentirti amato, considerato, desiderato, ritenuto importante (quando non fondamentale), ammirato, imitato, degno di gratitudine, sicuro, forte, inattaccabile, invincibile… questo dipende dalla tua tipologia caratteriale. Ma è uno star bene che non dura: ha bisogno costantemente di essere rinfocolato, rinvigorito, reso sempre più inebriante.
La migliore delle razionalizzazioni (ergo: le storie che ti racconti, facendo onestamente finta di crederci, per andare d’accordo con te stesso) che riesci a partorire in questi casi in genere è: è normale. Niente dura. La felicità, lo star bene è una cosa passeggera che oggi c’è e domani non si sa. Così è la vita. Bisogna duramente lavorare, far sacrifici, per ottenere la felicità. Che però non dura, si sa. Lo sanno tutti.
Per forza, son tutti infelici e disintegrati come te.
Sono tutte sacrosante balle.
Se ci vuoi credere, tanti auguri, clicca sulla X e vatti a leggere qualcosa di più confacente alle tue resistenze: un’altra delle cose che ci riesce meglio è seguire la linea di minor resistenza, proprio come fanno le ernie.
Ti risparmio quest’altra perla di wikipedia: l’ernia, da hernios che in greco vuol dire bocciuolo (poetica la scienza), è un’escrescenza, una cosa che invece di restare lì dov’è e dove il Signore gli ha detto di stare quando l’ha creata, esce dal seminato, s’infiltra in buchini che normalmente non ci dovrebbero essere o non essere così facilmente penetrabili (porta erniaria) ed esce all’aria aperta, in libertà, esplorando nuovi spazi e nuovi mondi dove normalmente non gli sarebbe dato di stare… e questo non perché le ernie abbiano aneliti di libertà, ma perché indotti a farlo da situazioni spiacevoli: sono costrette perché magari, al loro interno, c’è una forte pressione che preme e preme… e loro da qualche parte devono pur sfogare. Ecco, la porta erniaria è perfetta… si confà precisamente alle loro necessità: gli permette di sfogare, attraverso un locus minoris resistentiae, e questo risolve il problema, allevia la pressione, elimina l’ansia.
Salvo poi strozzare l’ernia quando questa cresce troppo sotto la spinta della pressione, o si lacera, o si muove… e allora è finita. Niente più ernia. Niente più locus minoris resistentiae. Niente più niente.
Una metafora perfetta di quel che facciamo abitualmente: sotto la spinta della pressione interna (ansie, tensione, paure, irritazione, nervosismo, rabbia, disagio) tra tante persone non scegliamo mai di metterci vicino a quelle che ci stanno sul naso e farci comunella, scegliamo quelle che ci vanno a genio… quelle che sembrano come noi. O come le parti di noi che ci piacciono (anche se non sappiamo/riteniamo di averle). E’ ovvio, è naturale: così com’è naturale per l’ernia erniare attraverso una linea di minor resistenza. Così ci evitiamo la fatica, ogni volta, di guardare quella cosa che invece tanto ci fa schifo di noi stessi, correndo il rischio di riconoscerla e, magari, ri accoglierla. Seppure con un qual certo fastidio, al principio.
Il punto è che siamo qui proprio per redimere i nostri peccati, e che lo vogliamo o no quelle separazioni che ogni giorno, quotidianamente come il caffè al mattino, mandiamo giù insieme al losartan (il losartan col caffè è il massimo: uno tenta di annientare l’ipertensione e l’altro l’innalza. Un perfetto esempio di equilibrio artificiale in un naturale sistema squilibrato) ce le ritroviamo sempre davanti: i giudizi che ci scappano automatici, come neanche ingranare la prima dopo il verde, sono solo l’inizio. Non vediamo l’ora di andarci ad incazzare maturamente su facebook contro… qualcuno qualcosa… devo dichiararmi per questa o per quella opinione, e difenderla fino alla morte, anche se di quel fatto in fondo non ne so un cazzo, e forse non me ne frega nemmeno fondamentalmente un cazzo… però quello lì mi ha provocato… mi ha detto così… vuol farmi passare per un cretino, per un deficiente… si prende gioco di me… ma io sono più furbo, io…
Come ci vogliamo bene, in fondo. Per tutta la vita non facciamo altro che inseguirci: tutte quelle parti di noi separate da noi, che vediamo dappertutto, che ci perseguitano, che ci sfuggono, che ci fanno male e a cui facciamo male… cos’è questa lotta eterna se non, in fondo, un violento tango d’amore e d’odio fra due eterni innamorati separati per qualche strano scherzo del destino, ma destinati a tornare insieme, come nelle migliori telenovelas strappalacrime da un milione di puntate mozzafiato?
Nessuno, nemmeno i cattolici, ha mai detto che la redenzione è una faccenda facile e indolore. Costa fatica e sofferenza ammettere che quello sputo di uomo che detesti sei tu; costa fatica e sofferenza ammettere che ogni volta che dici il mondo fa schifo, stai descrivendo una parte consistente di te stesso; costa fatica e sofferenza ammettere che tutto ciò che di male ritieni ti sia stato fatto da quello lì fuori in realtà l’hai fatto tu a te stesso… e indovina un po’ perché? Perché tu potessi guardarti allo specchio e riconoscerti.
Non preoccuparti, non basta una vita a incontrare tutti i te sparsi nel mondo.
Non essere ansioso adesso. Comincia da quelli che conosci, quelli materiali ed immateriali. Osservali, studiali; scoprirai che di loro non sai assolutamente niente, o meglio: sai solo quello che credi di sapere, ciò che dentro di te hai giudicato di quella persona, cosa, luogo, evento… e cioè, ciò che di te hai visto là dentro. Non possiamo riconoscere che ciò che abbiamo già dentro di noi: noi.
E quando l’avrai capito, quando ti sarai conosciuto e perdonato, quando gli avrai porto amorevolmente la tua guancia (consapevole che la stai porgendo a te stesso), quando avrai riaperto le braccia al tuo te perduto e ritrovato, come ad un figliol prodigo, allora avrai recuperato un pezzo della tua integrità e… magia: ti sentirai felice (senza la sertralina).
Ma il peccato capitale, quello che proprio non possiamo perdonare, riconoscere, ammettere in nessun modo tu non riesci nemmeno a riconoscerlo come tale. No, non è l’omicidio (avresti volentieri dato un colpo in testa potenzialmente fatale al tuo collega rompiballe, o evirato, a rischio di emorragia mortale, il tuo capufficio, ricordi?), nemmeno la pedofilia, o il furto, o l’omosessualità (eh lo so, per alcune persone in precario stato di salute questo sarebbe un peccato), o l’essere di destra, o l’essere di sinistra, o il tradimento coniugale ed extraconiugale, o il peculato, l’imbroglio, la menzogna, la bestemmia eccetera…
No. Il peccato di cui parlo è l’incoerenza. Nessuno, nessuno, nessuno nemmeno il destino ci può separare dall’impossibilità di capire, comprendere, afferrare, ammettere, considerare finanche perdonare l’incoerenza.
Il perché… ve lo lascio immaginare, in un delirio tra resistenze, ernie, sertralina e caffè.